martedì 27 novembre 2012

Sprazzi di ricordi.

L'odore del dopobarba di mio padre potrei riconoscerlo tra la popolazione mondiale. No, non il profumo, ma l'odore che ne viene fuori quando si mischia a quello della sua pelle. Gli stavo spalmata addosso quando lui era seduto su una delle due poltrone del salotto buono, quello che è accessibile solo la domenica o per le feste, Natale, Pasqua, i compleanni dei nonni, anche gli onomastici, a dire il vero, erano da festeggiare a casa loro. Tutt'intorno le voci degli adulti, l'argomento preferito, quello di cui non si stancavano, stancano ancora adesso, mai, ad animarle. A casa dei nonni paterni è tutto un parlare di calcio, i figli, le figlie i generi e le nuore, i nipoti grandi e quelli piccoli, i nonni stessi.
Mio padre è il quinto di sei figli, l'ultimo maschio, il piccolino che le due sorelle più grandi usavano come bambolotto e a cui così facevano anche da mammine. Quando poi è nata l'ultima davvero, allora le attenzioni sono irrimediabilmente ricadute su di lei, ma la distanza nel tempo non avrà di sicuro permesso a mio padre di rattristarsi, anzi, di godersi un po' più la sua adoloscenza da non più ultimo e iperprotetto. Gli altri due maschi il maggiore, e quello che a mio padre passa solo tre anni tendono a battibeccarsi più degli altri, per motivi che tutti possiamo immaginare. Era bello sentirli parlare.
In tutto adesso siamo tredici nipoti, ma quando io ero piccola eravamo solo sei. Andavano a combinare disastri nelle stanze lontane, quelle che per arrivarci bisognava attraversare un corridoio buio col marmo grigio. Trascinavo i piedi invece di sollevarli, e sotto le suole ogni tanto si avvertiva una resistenza, un segnale, quando la gomma delle scarpe incontrava il bordo di un marmo non perfettamente ad incastro. Mia madre mi tirava da un braccio e io tenevo gli occhi chiusi. Poi mi spingeva sulla soglia e diceva "Isotta vuole giocare con voi." Ma non era vero, Isotta voleva stare dove stava, che anche a cinque anni se hai un tipo di carattere con gli adulti ti ci trovi meglio o , più probabilmente, non mi piacevano i bambini già da quando lo ero io stessa.
Allora mi sedevo sulla sedia affianco all'armadio e dondolavo le gambe, scoordinate, tenevo le manine sotto le cosce, coi palmi piantati nel fondo in paglia, puntualmente poi ne rimanevano i segni. Guardavo i piedi comparire uno alla volta e ogni due contavo uno.
I miei cugini si dicevano cose nell'orecchio e poi ridevano, alcune volte facevano fare delle prove di coraggio ai più piccoli, cose come andare in cucina e rubare la bottiglia della coca-cola, le patatine o che so io. Io non ci sarei mai andata, non mi è mai piaciuto prendere le cose di nascosto ai grandi o forse avendo i miei nonni materni un bar, in cui mi era possibile accedere a qualsivoglia schifezza, senza nessuna limitazione, non capivo appieno il fascino di quell'esperienza, l'adrenalina di quel gioco.
Destro, sinistro. Uno
Destro, sinistro. Due
Tre, quattro, otto. All'otto ricominciavo da capo. Per otto volte.
Destro,Pim.
Sinistro,Pum.
Un salto a piedi uniti per scendere dalla sedia, Pam.
Correvo via, attraversando di corsa il corridoio. Era il lasso di tempo perfetto a non destare sospetti, troppo lungo per non aver partecipato ai giochi, troppo corto per far incuriosire gli altri e venire a vedere il mio cambiamento. Quello che avrebbero visto sarebbe stato unicamente la conferma di un dubbio.
Mi chiedevano se avessi giocato con gli altri e rispondevo sempre si. Quando gli adulti vogliono una cosa, la vogliono e basta, non importa quanto tu invece ne sia lontata e chiaramente infastidita. O almeno, così era mia madre.
La mediazione tra il mio volere e quello degli altri, avevo capito essere le piccole bugie. Innoque, dette a fin di bene, quelle mezze verità per non ferire, non turbare, non far arrabbiare, evitare le urla e la disapprovazione, sembrava accettabile infondo, scambiarle con la frustazione e la tristezza. Ma le piccole bugie si sommano e crescono, fanno l'abitudine, tanto da spuntare fuori all'occorrenza, senza controllo, come munite di vita propria, precise, credibili, azzeccate, in ogni situazione critica. Talmente affezionate, abituate, cresciute, da perderne il controllo, e da insolenti senza scrupoli quali sono, finirne con il diventarne il mezzo attraverso il quale si esprimono,
il gioco che si ribella al suo sviluppatore, un virus che subdolo si insinua nella cellula, che infinitesimale ma potente finisce per farle replicare il suo di genoma, invece che l'autoctono, e la cellula si ritrova così, inghiottita dal volere suo ospite, senza connotati.
Le bugie sono serpi che ti si rivoltano contro.

                                                                                  Isotta

martedì 13 novembre 2012

La Vita è un' Aguzzina.


Il fumo saliva denso arrampicandosi all'aria stagnate, tesseva una ragnatela sinuosa per poi sparire nell'afa dell'ultimo piano. Il buio attorno, il bruciore intermittente, tenuto in vita dalle inspirazioni, lunghe e cadenzate di una bocca senza più parole.
Le tapparelle abbassate lasciavano sullo spazio tutto intorno le tinte del nero, traforato da puntini di luce che sfruttando lo spazio, non chiuso a dovere, rendevano la situazione ancora più irreale.
Se ne stava dietro uno di quei buchi, le ginocchia strette al petto e la schiena curva, il tramonto le colpiva l'occhio con cui era intenta ad osservare fuori. Assaporava ogni boccata di nicotina, trattenendo il respiro un attimo in più del dovuto, tanto da far lacrimare gli occhi e accelerare i battiti. I tetti sembravano più rossi del solito, mentre dalla stradina arrivavano le voci della gente. Un ragazzo parlava al telefono di cose che probabilmente non provava sul serio ma che sarebbe valse un appuntamento o, nel caso avesse giocato bene le sue carte, qualcosa di più, la visuale limitata tuttavia non le permetteva di scorgerne la figura, si limitò ad immaginare l’aspetto.
Due bambine facevano su e giù per il percorso consentitogli dai genitori, sui pattini a rotelle, cantavano a squarciagola una canzone famigliare fino allo sfinimento, parlava di fiori e pesci rossi. Dal balcone di fronte, spalancato, era possibile vedere la signora preparare la cena, si sentivano i rumori tipici delle cucine, le posate e i bicchieri sistemati sul tavolo, la teglia che entra nel forno, il frigo che si apre e verrà chiuso per l'ennesima volta, la si sente rispondere alla domande del quiz in tivù, spesso sbagliando le risposte, fa tenerezza e un po' di pena, invidia.
Quante ore sarà stata nella stessa posizione? A giudicare dalla sensazione di anestesia generale almeno un paio. L'unica parte che avvertiva del suo corpo era la testa, ne sentiva il peso, ma non ricadeva su niente. Non aveva più le gambe, le braccia, un tronco, spariti, ingoiati dal buio. Una volta aveva sentito dire che quella strana sensazione è una forma di ipnosi. Che ci si concentra così tanto su un'area specifica del corpo, tanto da dimenticare il resto, lasciarlo indietro, addirittura furono condotte delle operazioni senza anestesia grazie a questa tecnica, diceva il servizio. Come avrebbe voluto potesse funzionare altrettanto bene coi ricordi. Le succedeva anche da bambina, quando dopo aver finito i compiti prendeva la sediolina, le cuffie e si piazzava davanti al televisore, guardava i cartoni animati per ore, per ingannare il tempo e la mancanza, in attesa che tornassero i genitori dai rispettivi luoghi di lavoro. Quando finivano le trasmissioni, era come svegliarsi da una trance e non ricordava nulla, oltre a non avvertire le estremità.
Non ricordava se aveva mangiato o se avesse detto qualcosa o se si fosse spostata per fare pipì magari, niente. Sorrise serrando la mascella.
Aveva gli occhi gonfi e striati dal rosso intenso dei capillari sotto sforzo, le doleva immediatamente dietro i bulbi oculari, un dolore pungente e materiale di cui si compiacque. Finita la sigaretta, lasciò cadere quello che ne rimaneva accanto alla cenere, che nel consumarsi aveva prodotto. "Ecco il tuo posto" sentenziò con fare solenne per poi scoppiare a ridere forte. Una risata lunga, esagerata, che tuonava nella casa vuota, rimbalzando di parete in parete, prepotente, sfacciata, inopportuna, falsa, talmente falsa da portarsi dietro come un fedele amico a quattro zampe, un cappio per la gola, che annoda, affoga, agogna fino a farti tossire, forte, forte, il viso paonazzo e la saliva immobile a toglierti la salvezza di un respiro che in realtà si trasforma in un rigurgito. Il vomito amico. Di vecchia data.
Provava pena per se stessa, mucchio d'ossa abbandonato su un pavimento costoso imbrattato da mozziconi e rigurgiti di se, ma come un oggetto non può separarsi dalla propria ombra, così questo sentimento non era nulla separato dal perverso senso di compiacimento per la sua condizione. Così sola al mondo e così profonda da accogliere ogni singolo centimetro di quella solitudine, delle conseguenze che si trascina come ingombranti gioielli. Non c'erano mica altri modi per sentirsi vivi. Attraverso lo strazio, la disperazione e il dolore, poteva dimostrare a se stessa che non era morta, che anche se è proprio un cadavere che si sentiva, poteva ancora provare qualcosa e poco importa non fosse nulla di buono. Era viva perchè era in grado di percepirla, distintamente, la punta di metallo insinuarsi sotto la pelle, farsi largo separando il tessuto, liberando dalla costrizione di un circolo chiuso e ripetitivo, quel fluido rosso e corposo, ostinato girovago di un corpo che tiene vivo, senza averne voglia o coscienza. Finchè senti qualcosa, esisti. La rabbia, la solitudine, il rancore, l'abbandono, corrono via, tutto si allontana, seguendo la scia rossa che si disegna tutto intorno, come lasciare una barchetta di carta lungo un rigagnolo, prima che si imboni e scompaia sotto il peso del suo stesso essere, sopraffatto dalle leggi della fisica, per un po' è possibile osservarla navigare, perseguire, assecondare il tragitto e allontanarsi.
"Vai via da me". Si sentiva sollevata ad ogni battito, ogni attimo. La testa sembrava più leggera e il cuore sollevato, persino i tagli non facevano più male. Stava bene mentre quello che l'aveva condannata per anni finalmente la lasciava in pace.
C'era un buon odore nell'aria, ricordava quello che sentiva da bambina quando prima di tornare a lavoro la madre la teneva in braccio. Se ne stavano sul divano e lei incastrava il naso nell'angolo che formano spalla e collo, sulla pelle nuda, un braccio rannicchiato vicino al proprio petto e l'altro libero di abbracciare la nuca, arrivare ai ciuffi di capelli per farli gironzolare tra le dita paffute e dai movimenti ancora poco raffinati.
"E' bello toccarti i capelli" ripeteva senza ben articolare con un filo di voce.
Provava quella stessa pace, quello stesso senso di abbandono, di serenità piena, gioia, gli occhi si lasciavano andare al buio, esattamente come allora.
Intanto una chiazza rossa si dilatava sul pavimento e finchè non si fosse spontaneamente esaurita la fonte, nessuno avrebbe potuto evitarlo.
Ora sarebbe stata finalmente libera dalla sua aguzzina.

N.B. Questo è solo un racconto frutto di fantasia. Non è ne un'esperienza reale ne una celata richiesta d'aiuto. Stasera è girata così e quello che ne è venuto fuori è questo.
Niente di più.

Spero ve la passiate meglio di me, ma mi riprendo!

                                                                                     Isotta

sabato 10 novembre 2012

Un Augurio ed una dichiarazione d'Amore.

Sto perdendo tempo prezioso, assecondando madama Pigrizia. Dovrei studiare, iniziare così da non arrivare con l'acqua alla gola, due giorni prima dell'esame.
Ma io sono così e se per 48 volte mi sono ridotta all'ultimo, cosa vuoi che cambi adesso?
Tornata nel microminiloft avrei dovuto svegliarmi presto, non andare a letto tardi, mangiare i legumi, sempre troppo pochi per un vegetariano, finire la relazione sul tirocinio e consegnarla, sistemare le cose, la maggior parte.
Il primo giorno mi sono riposata e nulla è cambiato, ancora.
Così riempio il tempo con pagine internet e telefilm, con le vite degli altri, che la mia mi fa schifo.
Nel tritacarne che è il mio tempo libero ci passa di tutto, dal calcio al bricolage, dai blog tema matrimonio ai mommyblog ai fashinblog, a quelli sull'arredamento e pure quelli di lifestyle, make-up, cucina, cinema, TUTTO.
Un pomeriggio noioso uguale a tutti quelli precedenti ed a venire, mi sono imbattuta in una dichiarazione d'amore. D'amore vero, tangibile, concreto, stabile. Di quell'amore che forse io non sarò mai in grado di provare per nessuno, ma che mi rassicura ascoltare, vivere attraverso il racconto di qualcuno, esperienza nell'accezione più vera.
In pratica Nina, la donna che lo ha scritto, ha un blog molto famoso, nel quale racconta la sua vita, emozioni ed impressioni di "diversamente fertile", alla ricerca di una gravidanza, che in questi giorni, incrociamo le dita, pare si stia trasformando in realtà.
Come in bocca al lupo quindi. 
Se non lo merita una coppia così, chi?

" In tempi non sospetti, quando io ero alle prese con le mie crisi esistenziali, Lui cercava pazientemente di riportare la nostra relazione su un piano di realtà.
In quei lunghi mesi di buio, accecata dal voglio un figlio a tutti i costi, focalizzata sulla ricerca, Lui lavorava in sordina all'enorme impresa di ricordare a se stesso e a me che c'è altro nella vita.
Mentre io ero assoggettata al mio universo emotivo, Lui, l'uomo di casa, l'essere razionale per eccellenza si ostinava a portare avanti la sua dura battaglia per dimostare che è possibile mantenere un dignitoso rapporto di normalità con la vita quotidiana, anche in condizioni d'instabilità e di emergenza come quella che ci siamo trovati a dover affrontare.
 
 Io facevo il bello e il cattivo tempo, Lui ritesseva i fili di una matassa che io mi divertivo (oh come mi divertivo) a ingarbugliare e confondere continuamente. Io vivevo assurde e inaspettate altalene emotive, Lui raccoglieva i pezzi, gli stralci di conversazione, i frammenti di paure irrazionali e dubbi atavici e cercava di ridargli un ordine e un senso.
Io ero centrata e focalizzata su un obiettivo preciso, Lui faceva di tutto per continuare ad assomigliare a un essere umano, capace di guardare ancora con interesse al mondo circostante, curioso di quello che accade lì fuori, per regalarci momenti di svago. Lui era la parte pratica, la costante razionale, io la componente emotiva, impulsiva e sognatrice.
Lui era l'occasione di uscire da me stessa e dai nostri drammi, era la possibilità per la nostra relazione di non implodere su stessa e mi ricordava l'importanza di alimentare le nostre passioni comuni per non perdere di vista la vita al di là di un figlio. Ma non lo faceva in modo plateale, esplicito bensì, più come un sussurro, il suo operare era da dietro le quinte: silenzioso e costante. Per questo troppo spesso non me ne sono accorta, ho equivocato e frainteso, non ne ho compreso l'importanza e il valore.

Io lo volevo presente, capace di entrare in risonanza con le mie parole, in immediata corrispondenza emotiva con me e con il mio vissuto. Io lo volevo empatico, capace di sentire quello che sentivo io, nello stesso momento.
Lo volevo complice delle mie messe in scena, dei miei teatrini interiori.
Lui invece prendeva le distanze dal mio modo, preferiva rimanere in superficie e non scendere in quegli abissi.
Stavo male, la chiamavo incompatibilità, indifferenza, incomunicabilità, incomprensione.
Ma questa diversità invece è stata una ricchezza, la nostra salvezza. Il suo senso pratico ha arginato il mio fiume in piena, mi ha offerto le coordinate di riferimento, i confini entro i quali le cose possono accadere e continuare a muoversi senza spargimenti inutili di sangue. Oggi mi rendo conto che se Lui avesse vissuto le cose al mio stesso modo, con lo stesso pathos e lo stesso trasporto, con quell'insana teatralità e quell'intensa drammaticità, io non so dove saremmo ora.
Comprendo oggi quanto quel suo agire in modo pratico, il suo non farsi sopraffare dalle emozioni, abbia permesso a me di muovermi in tutta sicurezza e libertà nel mio universo interiore, sondarlo ed esplorarlo, scendere e  risalire a mio piacimento, sicura del fatto che lì fuori c'era Lui, saldo e ben piantato coi piedi a terra, a occuparsi di tutto il resto mentre io svolazzavo per aria, o navigavo i miei mari, facile preda sia dell'entusiasmo che dello sconforto.
E' stato il porto che accoglie e offre sicurezza e riparo.

Non ha usato il mio linguaggio, fatto di aria, metafore e astrazioni, viscere, carne e sangue, ma ha usato il suo, che è fatto di terra, materia, acqua, che evoca in me immagini di solide montagne e di imponenti alberi.
Il mio è il potere esplosivo e distruttivo dell'uragano, il suo è il lavoro caldo e sotterraneo del magma denso.
Io ho il dono della trascendenza, Lui dell'essenzialità, della pragmaticità.
Io strabordo, esondo, Lui rispetta i suoi confini e dentro di essi attua il cambiamento.
Io sono tanta, Lui è minimale, essenziale ed efficace.
Io divago, mi perdo nei miei stati d'animo, mi cullo nel passato e nel futuro, mi lascio sfuggire il presente.
Lui è diretto, preciso, attuale.

E così era Lui a raccontarmi le cose del mondo di fuori, a cena, sempre Lui a trovare cose da fare, a  proporre concerti e uscite, a tornare la sera con un film da vedere, a pensare a tutto quello che a me, così impegnata su me stessa, sfuggiva troppo spesso.
Se ho avuto tempo e  modo di esplorare i miei limiti e poi superarli, lo devo a Lui.
Ora lo so.

E poi un giorno di circa due mesi fa mi sono ritrovata a sognare Parigi, a immaginare i suoi tetti, le sue strade, i suoi negozi, le sue atmosfere, i suoi cieli. Lui non si è perso in quei viaggi mentali con me , non ha assecondato il mio lato sognatore alimentandolo con le parole, Lui ha fatto molto di più (quello che forse io non sarei stata capace di fare) occupandosi degli aspetti squisitamente concreti e pratici.
Lui l'ha reso semplicemente possibile.

E così giovedì partiremo per Parigi, diremo addio a questo lungo, umido e freddo inverno dell'anima e saluteremo finalmente l'arrivo della nostra primavera.
Questo viaggio sarà lo spartiacque che separa il prima e il dopo, sarà per noi una luna di miele, come la prima volta.
Perchè ci stiamo ridando la possibilità di scoprirci e sorprenderci ancora, di guardarci con occhi nuovi e puri, di ricominciare una nuova fase fatta solo di noi.
Credo che Parigi sia la città perfetta per due anime che sono tornate a scegliersi ancora, per la seconda volta. "
 
Il link al post è questo!
 
Cosa altro è possibile dire dopo ciò?
Auguro loro il meglio, ed a me d'incontrare un Amore così.
Buon weekend!

                                                                                            Isotta