L'odore del dopobarba di mio padre potrei riconoscerlo tra la popolazione mondiale. No, non il profumo, ma l'odore che ne viene fuori quando si mischia a quello della sua pelle. Gli stavo spalmata addosso quando lui era seduto su una delle due poltrone del salotto buono, quello che è accessibile solo la domenica o per le feste, Natale, Pasqua, i compleanni dei nonni, anche gli onomastici, a dire il vero, erano da festeggiare a casa loro. Tutt'intorno le voci degli adulti, l'argomento preferito, quello di cui non si stancavano, stancano ancora adesso, mai, ad animarle. A casa dei nonni paterni è tutto un parlare di calcio, i figli, le figlie i generi e le nuore, i nipoti grandi e quelli piccoli, i nonni stessi.
Mio padre è il quinto di sei figli, l'ultimo maschio, il piccolino che le due sorelle più grandi usavano come bambolotto e a cui così facevano anche da mammine. Quando poi è nata l'ultima davvero, allora le attenzioni sono irrimediabilmente ricadute su di lei, ma la distanza nel tempo non avrà di sicuro permesso a mio padre di rattristarsi, anzi, di godersi un po' più la sua adoloscenza da non più ultimo e iperprotetto. Gli altri due maschi il maggiore, e quello che a mio padre passa solo tre anni tendono a battibeccarsi più degli altri, per motivi che tutti possiamo immaginare. Era bello sentirli parlare.
In tutto adesso siamo tredici nipoti, ma quando io ero piccola eravamo solo sei. Andavano a combinare disastri nelle stanze lontane, quelle che per arrivarci bisognava attraversare un corridoio buio col marmo grigio. Trascinavo i piedi invece di sollevarli, e sotto le suole ogni tanto si avvertiva una resistenza, un segnale, quando la gomma delle scarpe incontrava il bordo di un marmo non perfettamente ad incastro. Mia madre mi tirava da un braccio e io tenevo gli occhi chiusi. Poi mi spingeva sulla soglia e diceva "Isotta vuole giocare con voi." Ma non era vero, Isotta voleva stare dove stava, che anche a cinque anni se hai un tipo di carattere con gli adulti ti ci trovi meglio o , più probabilmente, non mi piacevano i bambini già da quando lo ero io stessa.
Allora mi sedevo sulla sedia affianco all'armadio e dondolavo le gambe, scoordinate, tenevo le manine sotto le cosce, coi palmi piantati nel fondo in paglia, puntualmente poi ne rimanevano i segni. Guardavo i piedi comparire uno alla volta e ogni due contavo uno.
I miei cugini si dicevano cose nell'orecchio e poi ridevano, alcune volte facevano fare delle prove di coraggio ai più piccoli, cose come andare in cucina e rubare la bottiglia della coca-cola, le patatine o che so io. Io non ci sarei mai andata, non mi è mai piaciuto prendere le cose di nascosto ai grandi o forse avendo i miei nonni materni un bar, in cui mi era possibile accedere a qualsivoglia schifezza, senza nessuna limitazione, non capivo appieno il fascino di quell'esperienza, l'adrenalina di quel gioco.
Destro, sinistro. Uno
Destro, sinistro. Due
Tre, quattro, otto. All'otto ricominciavo da capo. Per otto volte.
Destro,Pim.
Sinistro,Pum.
Un salto a piedi uniti per scendere dalla sedia, Pam.
Correvo via, attraversando di corsa il corridoio. Era il lasso di tempo perfetto a non destare sospetti, troppo lungo per non aver partecipato ai giochi, troppo corto per far incuriosire gli altri e venire a vedere il mio cambiamento. Quello che avrebbero visto sarebbe stato unicamente la conferma di un dubbio.
Mi chiedevano se avessi giocato con gli altri e rispondevo sempre si. Quando gli adulti vogliono una cosa, la vogliono e basta, non importa quanto tu invece ne sia lontata e chiaramente infastidita. O almeno, così era mia madre.
La mediazione tra il mio volere e quello degli altri, avevo capito essere le piccole bugie. Innoque, dette a fin di bene, quelle mezze verità per non ferire, non turbare, non far arrabbiare, evitare le urla e la disapprovazione, sembrava accettabile infondo, scambiarle con la frustazione e la tristezza. Ma le piccole bugie si sommano e crescono, fanno l'abitudine, tanto da spuntare fuori all'occorrenza, senza controllo, come munite di vita propria, precise, credibili, azzeccate, in ogni situazione critica. Talmente affezionate, abituate, cresciute, da perderne il controllo, e da insolenti senza scrupoli quali sono, finirne con il diventarne il mezzo attraverso il quale si esprimono,
il gioco che si ribella al suo sviluppatore, un virus che subdolo si insinua nella cellula, che infinitesimale ma potente finisce per farle replicare il suo di genoma, invece che l'autoctono, e la cellula si ritrova così, inghiottita dal volere suo ospite, senza connotati.
Le bugie sono serpi che ti si rivoltano contro.
Isotta
martedì 27 novembre 2012
Sprazzi di ricordi.
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martedì 13 novembre 2012
La Vita è un' Aguzzina.
Il fumo saliva
denso arrampicandosi all'aria stagnate, tesseva una ragnatela sinuosa per poi
sparire nell'afa dell'ultimo piano. Il buio attorno, il bruciore intermittente,
tenuto in vita dalle inspirazioni, lunghe e cadenzate di una bocca senza più
parole.
Le tapparelle
abbassate lasciavano sullo spazio tutto intorno le tinte del nero, traforato da
puntini di luce che sfruttando lo spazio, non chiuso a dovere, rendevano la
situazione ancora più irreale.
Se ne stava dietro
uno di quei buchi, le ginocchia strette al petto e la schiena curva, il
tramonto le colpiva l'occhio con cui era intenta ad osservare fuori. Assaporava
ogni boccata di nicotina, trattenendo il respiro un attimo in più del dovuto,
tanto da far lacrimare gli occhi e accelerare i battiti. I tetti sembravano più
rossi del solito, mentre dalla stradina arrivavano le voci della gente. Un
ragazzo parlava al telefono di cose che probabilmente non provava sul serio ma
che sarebbe valse un appuntamento o, nel caso avesse giocato bene le sue carte,
qualcosa di più, la visuale limitata tuttavia non le permetteva di scorgerne la
figura, si limitò ad immaginare l’aspetto.
Due bambine
facevano su e giù per il percorso consentitogli dai genitori, sui pattini a
rotelle, cantavano a squarciagola una canzone famigliare fino allo sfinimento,
parlava di fiori e pesci rossi. Dal balcone di fronte, spalancato, era
possibile vedere la signora preparare la cena, si sentivano i rumori tipici
delle cucine, le posate e i bicchieri sistemati sul tavolo, la teglia che entra
nel forno, il frigo che si apre e verrà chiuso per l'ennesima volta, la si
sente rispondere alla domande del quiz in tivù, spesso sbagliando le risposte,
fa tenerezza e un po' di pena, invidia.
Quante ore sarà
stata nella stessa posizione? A giudicare dalla sensazione di anestesia
generale almeno un paio. L'unica parte che avvertiva del suo corpo era la
testa, ne sentiva il peso, ma non ricadeva su niente. Non aveva più le gambe,
le braccia, un tronco, spariti, ingoiati dal buio. Una volta aveva sentito dire
che quella strana sensazione è una forma di ipnosi. Che ci si concentra così
tanto su un'area specifica del corpo, tanto da dimenticare il resto, lasciarlo
indietro, addirittura furono condotte delle operazioni senza anestesia grazie a
questa tecnica, diceva il servizio. Come avrebbe voluto potesse funzionare
altrettanto bene coi ricordi. Le succedeva anche da bambina, quando dopo aver
finito i compiti prendeva la sediolina, le cuffie e si piazzava davanti al
televisore, guardava i cartoni animati per ore, per ingannare il tempo e la
mancanza, in attesa che tornassero i genitori dai rispettivi luoghi di lavoro.
Quando finivano le trasmissioni, era come svegliarsi da una trance e non
ricordava nulla, oltre a non avvertire le estremità.
Non ricordava se
aveva mangiato o se avesse detto qualcosa o se si fosse spostata per fare pipì
magari, niente. Sorrise serrando la mascella.
Aveva gli occhi
gonfi e striati dal rosso intenso dei capillari sotto sforzo, le doleva
immediatamente dietro i bulbi oculari, un dolore pungente e materiale di cui si
compiacque. Finita la sigaretta, lasciò cadere quello che ne rimaneva accanto
alla cenere, che nel consumarsi aveva prodotto. "Ecco il tuo posto"
sentenziò con fare solenne per poi scoppiare a ridere forte. Una risata lunga,
esagerata, che tuonava nella casa vuota, rimbalzando di parete in parete,
prepotente, sfacciata, inopportuna, falsa, talmente falsa da portarsi dietro
come un fedele amico a quattro zampe, un cappio per la gola, che annoda,
affoga, agogna fino a farti tossire, forte, forte, il viso paonazzo e la saliva
immobile a toglierti la salvezza di un respiro che in realtà si trasforma in un
rigurgito. Il vomito amico. Di vecchia data.
Provava pena per
se stessa, mucchio d'ossa abbandonato su un pavimento costoso imbrattato da
mozziconi e rigurgiti di se, ma come un oggetto non può separarsi dalla propria
ombra, così questo sentimento non era nulla separato dal perverso senso di
compiacimento per la sua condizione. Così sola al mondo e così profonda da
accogliere ogni singolo centimetro di quella solitudine, delle conseguenze che
si trascina come ingombranti gioielli. Non c'erano mica altri modi per sentirsi
vivi. Attraverso lo strazio, la disperazione e il dolore, poteva dimostrare a
se stessa che non era morta, che anche se è proprio un cadavere che si sentiva,
poteva ancora provare qualcosa e poco importa non fosse nulla di buono. Era
viva perchè era in grado di percepirla, distintamente, la punta di metallo
insinuarsi sotto la pelle, farsi largo separando il tessuto, liberando dalla
costrizione di un circolo chiuso e ripetitivo, quel fluido rosso e corposo,
ostinato girovago di un corpo che tiene vivo, senza averne voglia o coscienza.
Finchè senti qualcosa, esisti. La rabbia, la solitudine, il rancore, l'abbandono,
corrono via, tutto si allontana, seguendo la scia rossa che si disegna tutto
intorno, come lasciare una barchetta di carta lungo un rigagnolo, prima che si
imboni e scompaia sotto il peso del suo stesso essere, sopraffatto dalle leggi
della fisica, per un po' è possibile osservarla navigare, perseguire,
assecondare il tragitto e allontanarsi.
"Vai via da
me". Si sentiva sollevata ad ogni battito, ogni attimo. La testa sembrava
più leggera e il cuore sollevato, persino i tagli non facevano più male. Stava
bene mentre quello che l'aveva condannata per anni finalmente la lasciava in
pace.
C'era un buon
odore nell'aria, ricordava quello che sentiva da bambina quando prima di
tornare a lavoro la madre la teneva in braccio. Se ne stavano sul divano e lei incastrava
il naso nell'angolo che formano spalla e collo, sulla pelle nuda, un braccio
rannicchiato vicino al proprio petto e l'altro libero di abbracciare la nuca,
arrivare ai ciuffi di capelli per farli gironzolare tra le dita paffute e dai
movimenti ancora poco raffinati.
"E' bello
toccarti i capelli" ripeteva senza ben articolare con un filo di voce.
Provava quella
stessa pace, quello stesso senso di abbandono, di serenità piena, gioia, gli
occhi si lasciavano andare al buio, esattamente come allora.
Intanto una
chiazza rossa si dilatava sul pavimento e finchè non si fosse spontaneamente
esaurita la fonte, nessuno avrebbe potuto evitarlo.
Ora sarebbe stata
finalmente libera dalla sua aguzzina.
N.B. Questo è solo un racconto frutto di fantasia. Non è ne un'esperienza reale ne una celata richiesta d'aiuto. Stasera è girata così e quello che ne è venuto fuori è questo.
Niente di più.
Spero ve la passiate meglio di me, ma mi riprendo!
Isotta
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sabato 10 novembre 2012
Un Augurio ed una dichiarazione d'Amore.
Sto perdendo tempo prezioso, assecondando madama Pigrizia. Dovrei studiare, iniziare così da non arrivare con l'acqua alla gola, due giorni prima dell'esame.
Ma io sono così e se per 48 volte mi sono ridotta all'ultimo, cosa vuoi che cambi adesso?
Tornata nel microminiloft avrei dovuto svegliarmi presto, non andare a letto tardi, mangiare i legumi, sempre troppo pochi per un vegetariano, finire la relazione sul tirocinio e consegnarla, sistemare le cose, la maggior parte.
Il primo giorno mi sono riposata e nulla è cambiato, ancora.
Così riempio il tempo con pagine internet e telefilm, con le vite degli altri, che la mia mi fa schifo.
Nel tritacarne che è il mio tempo libero ci passa di tutto, dal calcio al bricolage, dai blog tema matrimonio ai mommyblog ai fashinblog, a quelli sull'arredamento e pure quelli di lifestyle, make-up, cucina, cinema, TUTTO.
Un pomeriggio noioso uguale a tutti quelli precedenti ed a venire, mi sono imbattuta in una dichiarazione d'amore. D'amore vero, tangibile, concreto, stabile. Di quell'amore che forse io non sarò mai in grado di provare per nessuno, ma che mi rassicura ascoltare, vivere attraverso il racconto di qualcuno, esperienza nell'accezione più vera.
In pratica Nina, la donna che lo ha scritto, ha un blog molto famoso, nel quale racconta la sua vita, emozioni ed impressioni di "diversamente fertile", alla ricerca di una gravidanza, che in questi giorni, incrociamo le dita, pare si stia trasformando in realtà.
Come in bocca al lupo quindi.
Se non lo merita una coppia così, chi?
" In tempi non sospetti, quando io ero alle prese con le mie crisi esistenziali, Lui cercava pazientemente di riportare la nostra relazione su un piano di realtà.
Io lo volevo presente, capace di entrare in risonanza con le mie parole, in immediata corrispondenza emotiva con me e con il mio vissuto. Io lo volevo empatico, capace di sentire quello che sentivo io, nello stesso momento.
Ma io sono così e se per 48 volte mi sono ridotta all'ultimo, cosa vuoi che cambi adesso?
Tornata nel microminiloft avrei dovuto svegliarmi presto, non andare a letto tardi, mangiare i legumi, sempre troppo pochi per un vegetariano, finire la relazione sul tirocinio e consegnarla, sistemare le cose, la maggior parte.
Il primo giorno mi sono riposata e nulla è cambiato, ancora.
Così riempio il tempo con pagine internet e telefilm, con le vite degli altri, che la mia mi fa schifo.
Nel tritacarne che è il mio tempo libero ci passa di tutto, dal calcio al bricolage, dai blog tema matrimonio ai mommyblog ai fashinblog, a quelli sull'arredamento e pure quelli di lifestyle, make-up, cucina, cinema, TUTTO.
Un pomeriggio noioso uguale a tutti quelli precedenti ed a venire, mi sono imbattuta in una dichiarazione d'amore. D'amore vero, tangibile, concreto, stabile. Di quell'amore che forse io non sarò mai in grado di provare per nessuno, ma che mi rassicura ascoltare, vivere attraverso il racconto di qualcuno, esperienza nell'accezione più vera.
In pratica Nina, la donna che lo ha scritto, ha un blog molto famoso, nel quale racconta la sua vita, emozioni ed impressioni di "diversamente fertile", alla ricerca di una gravidanza, che in questi giorni, incrociamo le dita, pare si stia trasformando in realtà.
Come in bocca al lupo quindi.
Se non lo merita una coppia così, chi?
" In tempi non sospetti, quando io ero alle prese con le mie crisi esistenziali, Lui cercava pazientemente di riportare la nostra relazione su un piano di realtà.
In quei lunghi mesi di buio, accecata dal voglio un figlio a tutti i costi,
focalizzata sulla ricerca, Lui lavorava in sordina all'enorme impresa
di ricordare a se stesso e a me che c'è altro nella vita.
Mentre
io ero assoggettata al mio universo emotivo, Lui, l'uomo di casa,
l'essere razionale per eccellenza si ostinava a portare avanti la sua
dura battaglia per dimostare che è possibile mantenere un dignitoso
rapporto di normalità con la vita quotidiana, anche in condizioni d'instabilità e di emergenza come quella che ci siamo trovati a dover affrontare.
Io facevo il bello e il cattivo
tempo, Lui ritesseva i fili di una matassa che io mi divertivo (oh come
mi divertivo) a ingarbugliare e confondere continuamente. Io vivevo
assurde e inaspettate altalene emotive, Lui raccoglieva i pezzi, gli
stralci di conversazione, i frammenti di paure irrazionali e dubbi
atavici e cercava di ridargli un ordine e un senso.
Io
ero centrata e focalizzata su un obiettivo preciso, Lui faceva di tutto
per continuare ad assomigliare a un essere umano, capace di guardare
ancora con interesse al mondo circostante, curioso di quello che accade
lì fuori, per regalarci momenti di svago. Lui era la parte pratica, la
costante razionale, io la componente emotiva, impulsiva e sognatrice.
Lui
era l'occasione di uscire da me stessa e dai nostri drammi, era la
possibilità per la nostra relazione di non implodere su stessa e mi
ricordava l'importanza di alimentare le nostre passioni comuni per non
perdere di vista la vita al di là di un figlio. Ma non lo faceva in modo
plateale, esplicito bensì, più come un sussurro, il suo operare era da
dietro le quinte: silenzioso e costante. Per questo troppo spesso non me
ne sono accorta, ho equivocato e frainteso, non ne ho compreso
l'importanza e il valore.
Io lo volevo presente, capace di entrare in risonanza con le mie parole, in immediata corrispondenza emotiva con me e con il mio vissuto. Io lo volevo empatico, capace di sentire quello che sentivo io, nello stesso momento.
Lo volevo complice delle mie messe in scena, dei miei teatrini interiori.
Lui invece prendeva le distanze dal mio modo, preferiva rimanere in superficie e non scendere in quegli abissi.
Stavo male, la chiamavo incompatibilità, indifferenza, incomunicabilità, incomprensione.
Ma
questa diversità invece è stata una ricchezza, la nostra salvezza. Il
suo senso pratico ha arginato il mio fiume in piena, mi ha offerto le
coordinate di riferimento, i confini entro i quali le cose possono
accadere e continuare a muoversi senza spargimenti inutili di sangue.
Oggi mi rendo conto che se Lui avesse vissuto le cose al mio stesso
modo, con lo stesso pathos e lo stesso trasporto, con quell'insana
teatralità e quell'intensa drammaticità, io non so dove saremmo ora.
Comprendo
oggi quanto quel suo agire in modo pratico, il suo non farsi sopraffare
dalle emozioni, abbia permesso a me di muovermi in tutta sicurezza e
libertà nel mio universo interiore, sondarlo ed esplorarlo, scendere e
risalire a mio piacimento, sicura del fatto che lì fuori c'era Lui,
saldo e ben piantato coi piedi a terra, a occuparsi di tutto il resto
mentre io svolazzavo per aria, o navigavo i miei mari, facile preda sia
dell'entusiasmo che dello sconforto.
E' stato il porto che accoglie e offre sicurezza e riparo.
Non ha usato il mio linguaggio,
fatto di aria, metafore e astrazioni, viscere, carne e sangue, ma ha
usato il suo, che è fatto di terra, materia, acqua, che evoca in me
immagini di solide montagne e di imponenti alberi.
Il mio è il potere esplosivo e distruttivo dell'uragano, il suo è il lavoro caldo e sotterraneo del magma denso.
Io ho il dono della trascendenza, Lui dell'essenzialità, della pragmaticità.
Io strabordo, esondo, Lui rispetta i suoi confini e dentro di essi attua il cambiamento.
Io sono tanta, Lui è minimale, essenziale ed efficace.
Io divago, mi perdo nei miei stati d'animo, mi cullo nel passato e nel futuro, mi lascio sfuggire il presente.
Lui è diretto, preciso, attuale.
E così era Lui a raccontarmi le
cose del mondo di fuori, a cena, sempre Lui a trovare cose da fare, a
proporre concerti e uscite, a tornare la sera con un film da vedere, a
pensare a tutto quello che a me, così impegnata su me stessa, sfuggiva
troppo spesso.
Se ho avuto tempo e modo di esplorare i miei limiti e poi superarli, lo devo a Lui.
Ora lo so.
E poi un giorno di circa due
mesi fa mi sono ritrovata a sognare Parigi, a immaginare i suoi tetti,
le sue strade, i suoi negozi, le sue atmosfere, i suoi cieli. Lui non si
è perso in quei viaggi mentali con me , non ha assecondato il mio lato
sognatore alimentandolo con le parole, Lui ha fatto molto di più (quello
che forse io non sarei stata capace di fare) occupandosi degli aspetti
squisitamente concreti e pratici.
Lui l'ha reso semplicemente possibile.
E così giovedì partiremo per
Parigi, diremo addio a questo lungo, umido e freddo inverno dell'anima e
saluteremo finalmente l'arrivo della nostra primavera.
Questo viaggio sarà lo spartiacque che separa il prima e il dopo, sarà per noi una luna di miele, come la prima volta.
Perchè
ci stiamo ridando la possibilità di scoprirci e sorprenderci ancora, di
guardarci con occhi nuovi e puri, di ricominciare una nuova fase fatta
solo di noi.
Credo che Parigi sia la città perfetta per due anime che sono tornate a scegliersi ancora, per la seconda volta. "
Il link al post è questo!
Cosa altro è possibile dire dopo ciò?
Auguro loro il meglio, ed a me d'incontrare un Amore così.
Buon weekend!
Isotta
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